Ci sono “qualità” storicamente associate all’uomo, come segni distintivi della sua

identità, che oggi vanno necessariamente riconsiderate.

La forza fisica, l’autocontrollo emotivo, l’aggressività, la propensione al dominio: sono

caratteristiche spesso celebrate come “virtù maschili” che rispondono a un modello sociale di mascolinità, ma che continuano a esercitare una forte pressione sugli individui.

Ma chi ha deciso che queste siano le vere peculiarità dell’uomo?

Si tende a credere, per abitudine o per luoghi comuni, che queste qualità siano state

attribuite all’uomo dalla sua stessa natura biologica, come se fosse “programmato” per essere dominante, freddo, competitivo e talvolta violento.

Eppure, questa è una visione semplicistica e profondamente sbagliata. L’essere umano non è definito solo dalla sua biologia: è soprattutto il prodotto dell’ambiente in cui cresce, dell’educazione che riceve e delle strutture culturali in cui si forma.

Non esiste un destino biologico che condanni l’uomo alla violenza.

La risposta emotiva agli eventi esterni è strettamente legata a come una persona ha

imparato a conoscere e a gestire la propria interiorità. E molti uomini, cresciuti in contesti che reprimono la sfera emotiva, non hanno mai imparato a farlo.

La cultura patriarcale, dividendo la società in gerarchie di genere, ha spinto l’uomo a

identificarsi con ruoli di comando e potere, sia nei rapporti sociali che in quelli personali.

Ha definito stati emozionali universali, come l’empatia, l’insicurezza, la sensibilità, il bisogno di amore e di protezione, come segni di “femminilità”, di debolezza e quindi da nascondere.

Non sorprende, allora, che molti uomini abbiano difficoltà a parlare dei propri sentimenti, nel chiedere aiuto o che sviluppino una concezione distorta dell’amore: la gelosia, il possesso sono tuttora fortemente romanticizzati. In questa logica malata, il rifiuto da parte di una donna non viene vissuto come un confine da rispettare, ma come un oltraggio alla propria virilità. E per alcuni, purtroppo, la reazione è la violenza: un tentativo disperato di riaffermare un’identità maschile ferita.

Questa normalizzazione della violenza è pericolosa. È così radicata nell’immaginario

collettivo da apparire quasi accettata o addirittura prevista.

Infatti, di fronte all’ennesimo caso di femminicidio, la reazione pubblica appare sempre più assuefatta, quasi priva di autentica indignazione. È come se fosse ordinaria l’idea che l’uomo possa scivolare nei suoi eccessi.

Ma non lo è. Si tratta, piuttosto, del fallimento di una cultura che ha sistematicamente negato all’uomo l’accesso a una piena educazione emotiva e affettiva.

Troppo spesso l’uomo che uccide viene descritto come un soggetto deviato, patologico, riducendolo a un caso isolato ed escludendolo dal contesto sociale che invece lo ha allevato e formato secondo le proprie regole.

Trattare il problema del femminicidio senza analizzarne le radici culturali equivale a rimanere in superficie. È un approccio sterile, che ignora la necessità di una vera prevenzione.

Significa lasciare intatti i meccanismi da cui tali dinamiche continuano a originarsi.

Lo dimostrano le vittime che ogni giorno riempiono le cronache: figlie e figli di una società che si rifiuta di cambiare.

Il cambiamento deve nascere nei luoghi dove si formano le persone: la scuola, la famiglia, le istituzioni, i media, i luoghi di lavoro. Serve uno spazio dove educare alla libertà emotiva, al rispetto e all’uguaglianza.

Solo attraverso un processo di riconoscimento e decostruzione dei modelli tossici che abbiamo interiorizzato, potremo trasformare la società in qualcosa di più giusto, più equo, in cui ciascun individuo, indipendentemente dal genere, possa sentirsi al sicuro, libero di esprimersi e di amare senza paura.

Vi lascio con una frase esposta su un cartello per Ilaria Sula:

“Intervenire quando una donna è già morta è un fallimento.”

Carmen Vizzutti – 5SMSI

Carmen Vizzutti – 5SMSI

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