Non è possibile guardare questa serie ed uscirne indenni.
Non è possibile pensare di essere al di sopra delle parti e non avvertire un coinvolgimento personale.
Non è possibile evitare di porsi delle domande sull’evoluzione (o involuzione?) che sta caratterizzando inesorabilmente il mondo che ci circonda ed in particolare le giovani generazioni.
Questa serie è un vero e proprio pugno nello stomaco per lo spettatore perché dipinge un ritratto terribilmente crudo dell’adolescenza moderna e delle sue zone d’ombra e perché inevitabilmente ci porta tutti a riflettere sulle nostre responsabilità, nessuno escluso sia che siamo giovani, figli, genitori, insegnanti, vicini di casa pettegoli, psicologi, poliziotti…
La grande potenza di questa serie è di lasciare lo spettatore con più domande che risposte spingendolo a interrogarsi su cosa significhi davvero essere colpevoli in un mondo in cui l’opinione pubblica sembra avere più potere della legge e in cui la potenza dei social appare quanto mai incontrollata e pericolosa.
Adolescence è una miniserie scritta da Stephen Graham e Jack Thorne e diretta da Philip Barantini in quattro episodi tutti girati con un unico piano sequenza. Anche se alla base della trama c’è un crimine, non si tratta di un thriller psicologico né di un poliziesco perché, già dal primo episodio, è chiaro chi sia il colpevole, anche se noi spettatori fino all’ultimo speriamo che la realtà sia diversa da quella che ci viene presentata.

La serie si svolge in una tranquilla cittadina britannica sconvolta da un tragico evento: il ritrovamento del corpo di Katie Leonard, una quattordicenne molto conosciuta e benvoluta, in un parco locale. Poco dopo, Jamie Miller, un ragazzo di tredici anni, viene arrestato con l’accusa di omicidio. La storia segue la famiglia Miller mentre affronta lo shock dell’accusa contro Jamie e le conseguenze devastanti sulla loro vita quotidiana. La comunità, inizialmente solidale, si trasforma rapidamente in un ambiente ostile, con i media e i social network che alimentano teorie e condanne pubbliche ancora prima dell’inizio del processo.
Parallelamente alla vicenda centrale, la serie esplora il punto di vista degli investigatori e degli psicologi coinvolti nel caso, cercando di capire cosa possa aver portato un ragazzo apparentemente “normale” a un atto così estremo. La serie mette in discussione l’idea che la violenza adolescenziale sia sempre prevedibile, esplorando i segnali trascurati dai genitori e dagli insegnanti.
Le motivazioni del crimine di Jamie appaiono legate ad alcune dinamiche relative ai social e che credo risultino sconosciute alla maggior parte degli spettatori che sono come me della Generazione X: prima fra tutte la “manosfera“, un neologismo che si ritiene essere apparso la prima volta nel 2009 su un blog di Blogspot utilizzato per identificare forum e comunità online dedicati a una varietà di interessi maschili, in particolare tutti quei siti e contenuti web che promuovono la misoginia e la supremazia maschile e il linguaggio che si allinea con la comunità “incel“, un hub online di uomini che si descrivono come “celibi involontari” e incolpano le donne per le loro difficoltà a stabilire legami romantici.
Inizialmente il poliziotto incaricato di seguire il caso (anche lui uno della Generazione X!) interpreta le emoji e i commenti di Jamie sui social come se fossero amichevoli e ne comprende il reale significato solo quando suo figlio Adam, a sua volta vittima di bullismo a scuola, non gli spiega il significato di questo “linguaggio”. Questo è un chiaro segno di come molti di noi adulti siamo completamente ignari delle forme di comunicazione adolescenziali e di quanto sarebbe invece importante avvicinarci a questi nuovi linguaggi.
Soprattutto il quarto ed ultimo episodio si concentra sulla famiglia del giovane assassino. I genitori, la cui vita è irrimediabilmente sconvolta, si interrogano sul fatto di essere stati dei buoni genitori e su cosa avrebbero potuto fare diversamente. Ad un certo punto il padre del ragazzo, ricordando le tante ore trascorse dal figlio nella propria cameretta davanti al computer si chiede:
“Che male poteva fare chiuso lì dentro?”
Questa domanda, ci fornisce la chiave di lettura dell’intera serie. Dimostra infatti la completa mancanza di consapevolezza da parte degli adulti delle difficoltà e dei pericoli che i giovani affrontano nell’era moderna di Internet, dove il cyberbullismo dilaga, mentre restano apparentemente al “sicuro” nella propria cameretta. Forse, se i genitori di Jamie avessero varcato più spesso le porte di quella stanza, tutto sarebbe stato diverso.
Tanti dunque i pregi di questa serie che non si propone ad ogni costo di piacere a tutti proprio perché “scomoda” e accusatoria, ma che ci spinge a cercare soluzioni qui ed ora perché non possiamo prevedere chi sarà il prossimo Jamie, ma possiamo TUTTI, ognuno nel suo ruolo, agire per evitare che un ragazzo “normale” si trasformi in un mostro.

Prof.ssa Emanuela Ferri